Con uno dei suoi finanziamenti, AriSLA (fondazione attualmente guidata da Mario Melazzini) ha reso possibile la ricerca e la conseguente scoperta che ha aperto la strada a nuove prospettive sulla gestione e sull’approccio terapeutico alla patologia.
Ecco la proteina che ci racconta la malattia
Si chiama Tdp-43 ed è una proteina “che forma aggregati anomali nel cervello della quasi totalità dei pazienti con SLA così come in numerosi pazienti affetti da una miopatia particolare, la miosite da corpi inclusi (M-ci), e nel 50% circa di quelli affetti da demenza frontotemporale (Ftd)”.
Ce lo spiega Emanuele Buratti, il ricercatore a capo dell’équipe del Centro internazionale di Ingegneria genetica e biotecnologica di Trieste che è arrivata a scoprire il meccanismo indotto dalla proteina. Esaminando la Tdp-43 e il modo in cui questa “regola l’espressione di numerosi geni sia nei muscoli che nei neuroni umani”, poi “valutando le differenze riscontrate nel processo per arrivare a capire quali sono quelli realmente coinvolti nello sviluppo della malattia”, i ricercatori sono riusciti a trovare le risposte che cercavano. La ricerca che ha permesso di arrivare a questa importante conclusione era stata finanziata dalla fondazione italiana di ricerca per la Sclerosi laterale amiotrofica, attualmente guidata da Mario Melazzini.
Mario Melazzini: l’obiettivo finale è la sconfitta della SLA
“Siamo soddisfatti di aver contribuito a questo risultato con cui progrediamo nella conoscenza dei meccanismi patologici alla base della SLA”, ha commentato il Presidente di AriSLA Mario Melazzini, il quale ha poi sottolineato la necessità di continuare nella ricerca con fiducia e speranza per raggiungere lo scopo finale, ovvero arrivare a sconfiggere la malattia. La recente scoperta rappresenta sicuramente un significativo passo avanti.
Come chiarisce Emanuele Buratti, infatti, “ha permesso di identificare un numero di geni effettivamente alterati nel cervello e nei muscoli dei pazienti, configurandosi come un nuovo marcatore per comprendere lo stadio della malattia ma anche per ipotizzare nuove terapie capaci di ripristinare la normale espressione dei geni”. “Abbiamo ora – conclude il ricercatore – un indicatore oggettivo che possiamo interrogare per capire il livello di sviluppo della malattia, i diversi effetti nei tessuti ma anche valutare un possibile trattamento terapeutico”.